Anche gli influencer sono agenti di commercio. E devono versare i contributi a Enasarco
Electo Magazine – Francesco Filippelli
Ebbene: questa volta hanno ragione i giovani nel ritenere che l’attività dell’influencer – se svolta in modo continuativo e sistematico – sia da considerarsi, a tutti gli effetti, un “mestiere” vero e proprio, e non un semplice passatempo.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 2615/24 del 4 marzo 2024 ha infatti stabilito che il soggetto (l’influencer, appunto) che, attraverso la rete telematica ed i suoi strumenti di condivisione di contenuti, svolga in modo continuativo l’attività di promuovere i prodotti di un’azienda, influenzandone l’acquisto da parte della comunità degli utenti telematici, in realtà svolge attività di agente di commercio, così come definita dall’art. 1742 del Codice civile.
Questi i fatti che hanno condotto alla sentenza succitata.
In tal modo, il compenso che l’azienda corrispondeva all’influencer era proporzionale alle vendite effettuate con suddetto codice.
L’azienda in oggetto ha proposto ricorso al Tribunale di Roma avverso il verbale che ingiungeva il versamento contributivo, sostenendo che tale attività non fosse configurabile come agenzia, mancando di più elementi essenziali (tra cui la pattuizione della zona di operatività del promotore, la mancata attività svolta da quest’ultimo sui singoli utenti ecc…).
La sentenza di cui si parla ha sancito che l’attività svolta dagli influencers in favore dell’azienda era da ritenersi a tutti gli effetti attività di agenzia, con conseguente legittimità dell’ingiunzione di pagamento dei contributi E.N.A.S.A.R.C.O. da parte dell’Ente interessato.
Dalle motivazioni della sentenza emessa dal Tribunale emergono le considerazioni seguenti.
L’attività di “promuovere stabilmente, per conto di terzi e verso retribuzione, la conclusione di affari in una zona determinata” [così il Codice Civile definisce l’attività di agente di commercio, ndt] può ritenersi compiuta anche se l’influencer utilizza modalità diverse da quelle usuali (non contatta i singoli clienti, non svolge una trattativa di prezzi e sconti, non effettua attività post-vendita ecc…).
E’ stato ritenuto che l’aver fatto conoscere i prodotti, le loro qualità, il nome dell’azienda venditrice ecc… possano ritenersi comportamenti sufficienti a configurare la “promozione”, ovvero quel meccanismo che induce il cliente ad acquistare.
Anche l’apparente mancanza di “zona” è stata superato dalla sentenza: questa ha ritenuto che la platea dei cosiddetti “followers” (ovvero: coloro che in Rete visualizzano e condividono il contenuto audio-video inserito dall’influencer) possa equivalere costituire il territorio (in questo caso demografico, non geografico), che il Codice Civile concepisce come ambito di operatività dell’agente.
Tuttavia, affinché l’opera dell’influencer possa considerarsi attività di agente di commercio è necessaria la concomitanza di vari elementi: in primis la continuità dell’azione promozionale svolta nell’interesse dell’azienda venditrice (anche se per prodotti di volta in volta diversi); la pattuizione di un compenso per tale attività; il rapporto di causa-effetto dimostrabile tra l’opera di persuasione dell’influencer ed il comportamento dei suoi followers (cioè: l’acquisto dei prodotti).
Come si nota, l’evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione non possono che influire sulle dinamiche dell’economia, ivi compreso l’ambito dell’intermediazione, a lungo tempo evocato dalla figura del “piazzista con la valigia”, che oggi deve obtorto collo rimanere confinata nei ricordi nostalgici.